Parlare di una civiltà contadina dell'Appennino genovese è parlare di una civiltà scomparsa. Una civiltà travolta dall'incalzare convulso di mutamenti, sepolta sotto una vegetazione incolta di rovo, edera, vitalba, sambuco, una macchia selvaggia, che non è più bosco né prato.

E' difficile immaginare un territorio più refrattario allo sfruttamento agricolo di queste colline, che, a dispetto delle quote non elevatissime, val ben chiamare montagne, scoscese, ineguali, impervie, rovinose. E fatica, oggi quasi inimmaginabile, è il lavoro di terrazzare simili pendii, con la zappa e la pala, trasportando a mano centinaia e centinaia di pietre, su e giù, giù e su, che la pendenza non perdona e sempre bassa è la terra, anche in collina. Quando l'erba ricopre come prato la pietra del muro, e il taglio non appare più, sembra quasi che quelle terrazze ci siano sempre state. Quando ero bambina, e guardavo quei monti regolarmente scolpiti dalla morbida geometria delle "fasce", ero convinta che quella fosse la loro forma, la sagoma propria e naturale del pendio. Perché la fascia non violenta il monte, non lo ferisce come la traccia rozza e impietosa di una strada d'asfalto. Si fa invece parte di esso, e lo ammansisce.

Accanto alle rovine dei villaggi, ai ruderi dei casoni, alle consunte sagome di legno dei tralicci delle teleferiche, sono rimaste e rimarranno le fasce. Basterebbe questo, anche se non di solo questo si tratta, a meritare il termine civiltà per una comunità di rustici montanari di poche parole, quasi nessuna scritta, utensili essenziali, solitudine immensa.

Tracce contrastanti si incontrano vagando per questi monti. Brandelli di muri a secco, ritti sul nulla, o divelti dal ritorno del bosco, pietre antiche, lucide ancora, testimoni di una dedizione mai spenta. Oppure i segni di ricostruzioni più recenti, il rosa pallido dei rozzi intonaci delle case, i magri pali di legno che sostengono inutili isolatori e inservibili groppi di fili elettrici. Sono vuote le stalle, sgombre le mangiatoie di legno, sfondati i tetti di lavagna, coperte di muschio e frasche le scale di pietra. Diversi e variati modi e generazioni di esodi hanno segnato queste montagne, l'emigrazione in cerca di fortuna, l'urbanesimo del dopoguerra, fino all'ultimo, definitivo abbandono, quello che si è perpetuato proprio negli ultimi decenni, quando le frazioni più sperdute, dove la strada carrozzabile non è mai arrivata, sono rimaste deserte.

E' osservando quel che resta che sono nate queste immagini, semplicemente, così, per non dimenticare. (C.M.)


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© Carla Marchetti
giugno 2000