Viveva in un tempo molto lontano
un uomo che aveva dedicato l’intera esistenza ad ammassare denaro
e ricchezze di ogni genere ed era di un’avarizia così mostruosa
che aveva sacrificato al denaro amicizie e affetti. Un suo conoscente,
che coltivava con grande devozione le scienze e la filosofia, si recò
un giorno da lui e gli disse:
“Amico mio, davvero non comprendo perché tu ti affatichi
tanto per ottenere la ricchezza. Forse che non conosci la formula elementare
che consente, ogni volta tu voglia, di trasformare qualsiasi vile oggetto
in oro zecchino?” L’avaro sussultò, sorpreso e quasi
sgomento. Spesso, nei sogni, aveva immaginato di possedere l’atavico
segreto degli alchimisti per fabbricare l’oro, ma mai aveva sperato
di poterlo apprendere, neppure con il più grande sacrificio. “Quel
che dici mi sorprende, perché io davvero non so di che cosa parli.
Ma certo molto ti potrei ricompensare se tu volessi svelare anche a me
questo segreto.” “Certo io non ho bisogno di nulla, gli rispose
il saggio, poiché ogni ricchezza ottengo senza fatica, e volentieri
ti dirò come si fa.” Ciò detto i due uomini si ritirarono
in un luogo appartato e il saggio spiegò con pazienza e precisione
all’avaro tutta la procedura, che a quest’ultimo parve semplice
ed ingegnosa. “Vero è, concluse il filosofo, che le circostanze
devono essere favorevoli e assai grande la concentrazione, e quindi la
riuscita non è sempre certa. Ma, credimi, tutto ti risulterà
più facile con un minimo di esercizio.” L’avaro si
fece ripetere ancora tutti i passaggi del metodo, il cui segreto pareva
essere solo il concentrarsi con abnegazione sull’idea di oro, il
che gli pareva così semplice e istintivo che divenne impaziente
che l’altro lo lasciasse solo per cominciare immediatamente. |
Quando
cominciai a pensare all'elefante bianco, non immaginavo neppure lontanamente
quello che sarebbe diventato per me. Arrivò in sordina, sornione, con
disinvoltura. Mi svegliavo al mattino ed era accanto a me, quasi dentro
la mia camicia da notte. Lo guardavo impaurita, mentre si infilava le
mie pantofole. Mi seguiva in bagno, lavandosi i denti con il mio spazzolino.
Gli porgevo con riluttanza un biscotto da intingere nel mio caffè. Dovevo
scansarmi con prudenza, quando saliva sull'autobus con me. Tuttavia, mi
ricordo, in quei primi tempi avevo ancora qualche distrazione. Potevo
mangiare un gelato senza pensare all'elefante bianco. Soffiarmi il naso
senza pensare all'elefante bianco. Persino immaginare storie fantastiche
che non c'entravano niente con l'elefante bianco. Ma questi momenti di
libertà divennero man mano sempre più rari. Anzi, quando mi capitava di
dimenticarmene per lunghi periodi, cominciavo a preoccuparmi: “E' mai
possibile che in tutto questo tempo non abbia mai pensato all'elefante
bianco?” Allora
lui tornava, obbediente, accoccolandosi sul divano. Era un animale piuttosto
volubile. Era capace di rimanere per giorni fermo e mansueto, presente,
ma con discrezione. Ma spesso, specie nelle ore della sera, quel pacifico
pachiderma diventava quasi feroce. Io tentavo di essere più feroce di
lui. Facevo la voce grossa per mezza giornata e mi sentivo formidabile.
Tuttavia bastava che lui alzasse appena una zampa possente, barrisse in
modo quasi impercettibile ed io tornavo dolcissima, lo accarezzavo e lo
coccolavo. Aveva paura dell'elefante bianco e non volevo assolutamente
litigare con lui. Cominciò a diventare sempre più invadente. Mi distraeva
di continuo, facendomi dimenticare gli appuntamenti. Se andavo al cinema,
si metteva fra me e lo schermo. Se andavo a un concerto, barriva contro
la musica. Se andavo al mare, mi copriva il sole. Avevo il suo nome continuamente
in mente e spesso ero costretta a mordermi la lingua per paura di nominarlo
all'improvviso. Arrivavo alla sera sfinita e la testa mi pesava come un
macigno.
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“Dimmela dunque, in nome del cielo,
così che io non abbia a commettere errori fatali.” “Ecco,
si tratta di questo. Nel momento cruciale dell’operazione, e tu
sai quale poiché ne abbiamo testè a lungo discusso, che
non ti salti in mente per carità di pensare all’elefante
bianco. Perché se questo pensiero ti dovesse solo sfiorare l’anticamera
del cervello, non otterrai mai assolutamente nulla.” “Che sciocchezza,
disse il ricco, naturalmente non ci penserò. D’altra parte
non era neppure necessario che ti preoccupassi di dirmelo, non vedo perché
dovrei mai pensare all’elefante bianco.”
Trascorsero diversi giorni e un pomeriggio il saggio, mentre passeggiava
assorto nelle sue meditazioni, si imbattè nell’avaro, che
aveva un’aria così triste ed affranta da muoverlo a compassione.
“Dunque?” chiese il saggio. “Disgraziato il momento,
piagnucolò l’altro, in cui mi dicesti quell’ultima
cosetta. Per tutta la vita non avevo mai e poi mai pensato all’elefante
bianco. Ma dall’istante in cui tu lo menzionasti, non ho potuto
più fare a meno di pensarci. Ed ero così preoccupato di
evitare di pensarci, che non potevo assolutamente fare a meno di pensare
che non dovevo pensarci. E
quel dannato elefante era sempre lì, fermo nella mia mente, mentre
pensavo che non dovevo pensarci e pensavo che dovevo assolutamente smettere
di pensare di smettere di pensarci.” |
Ma benché cominciassi ad odiarlo,
il mio odio era impotente. Se pensare all'elefante bianco era un'attività
faticosa, smettere di pensarci un'impresa addirittura sovrumana. Diventai
sempre più pigra. Passavo il tempo distesa a guardare il soffitto e pensavo
all'elefante bianco. Incontravo pochissima gente, e pensavo all'elefante
bianco. Mangiavo pochissimo e pensavo all'elefante bianco. Solo quando
dormivo, stremata e senza sogni, spariva in un'inutile nulla che non mi
procurava riposo. Una notte avevo toccato il culmine delle mie sofferenze.
Mi sentii disposta a tutto pur di liberami di lui, anche se l'unico modo
per farlo fosse liberarmi di me. Mi distesi per terra e decisi che non
mi sarei più mossa. L'elefante era talmente vicino alla mia faccia che
facevo fatica a respirare. “Alza la zampa,” dissi con un fil di voce,
“ti prego, schiacciami la testa.” Trattenevo il respiro, aspettando il
colpo che mi avrebbe spappolato il cervello. Stringevo la testa fra le
mani, le dita contro gli occhi e sentivo che, da un momento all'altro,
sotto di me si sarebbe spalancata la voragine. Ma non accadde assolutamente
nulla.
Mi ritrovai affacciata alla finestra con la testa completamente vuota.
Un buco. Ma dov'era finito l'elefante bianco? Era stato lui a schiacciare
la mia testa o io a schiacciare la sa? Da quella notte, qualcosa veramente
cambiò. Osservavo la mia vita e mi accorgevo che l'elefante bianco non
c'entrava per niente. Lo vedevo in un angolo, barriva piano e la sua pelle
non era più immacolata, ma grigia. A volte ritornava bianco, di un candore
luminescente; ma i suoi contorni mi sfuggivano sempre di più. L'ho visto
pochi giorni fa, dopo anni. Era vecchio e rugoso, tanto scolorito da sembrare
trasparente.
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